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afflitto dagli alleati nella precedente campagna, intese più che mai gagliardamente alle provvisioni dell'armata. Laonde gli arsenali dell' imperio, massime quello di Gallipoli, furono messi sossopra ad ogni maniera di travagli per costruire un gran numero di galere, navi, palandre e schirazzi che dovevano alla primavera essere pronti alla vela. Le notizie di siffatto armamento molestavano l'animo di Pietro Mocenigo generale veneziano che svernava in Napoli di Romania, quando a lui si presentò un giovanetto siciliano, di nome Antonello 93, profferendosi da se stesso parato a correre ogni pericolo purchè giugnesse a bruciare il maggior arsenale che i nemici avevano presso a Gallipoli. L'impresa di questo giovane riuscì tale alla prova da disgradare Orazio e Scevola; e come degnissima di essere per ogni storia ricordata io qui tanto più volontieri l'inserisco, quanto che è connessa con i fatti precedenti e susseguenti della lega che sotto gli auspicî del Papa si manteneva.

Antonello per tanto espose al generale come egli fosse stato già due anni addietro preso schiavo dai turchi in Negroponte, e poi condotto a servire nei cantieri di Gallipoli, ove di necessità avendo in poco tempo acquistato piena informazione del luogo, e vedutolo mal guardato di giorno e peggio di notte, avesse sovente machinato nell'animo di dargli fuoco: aggiunse che presso ai cantieri fossero più che quindici magazzini pieni di attrezzi, pece, stoppa, sevo, ed ogni altro oggetto di marinerìa: mostrò animo capace di condurre a termine il disegno, e non richiese altro sussidio che un barchetto da pescatore, sei compagni risoluti, ed alcuni altri arnesi da mascherare il fine del suo viaggio a Gallipoli. Pietro, udendo queste cose, da grande allegrezza compreso lodò il giovane, e dopo averlo confortato non solo ad ogni sua domanda prontamente soddisfece, ma anche un largo guiderdone gli promise s' egli riusciva nell'opera. Scelti adunque i compagni ed avuto il pali

93. MALIPIERO cit. p. 85.
CORIOLANO CIPPICO cit. p. 26.
SABELLICO ed. cit. p. 762.
RAYNALDUS. Ann. 1473. n. 2.

ERIZZO SEBASTIANO. Le sei giornate. in-4. Venezia 1367. - Giorn. V. avven.29. PAOLO MOROSINI cit. p. 572.

schermo, Antonello a guisa di mercadante caricò la barca di uve passe, di aranci e di frutta, poi sotto ai cofani occultò l'arti ficio del fuoco, una enorme tanaglia, ed altri suoi ferri; e giunto ai Dardanelli, avendo dato voce alle guardie di portar frutta al mercato, fu lasciato passare, così che venne in terra Gallipoli. Colà poi, come se non avesse nella mente l'alto disegno, strafficò la giornata al guadagno del vendere, e fece così bene la parte sua che niuno dei nimici ne prese suspicione. Ma venuta la notte oscura e senza luna, che fu quella del venti febbrajo 1473, Antonello ed i compagni si tirarono con la barchetta presso ai magazzini, e con quella grande tanaglia afferrato il chiavistello l'ebbero quasi prima strappato che stretto; e poi venuti dentro, aperte le fenestre perchè l'aria ajutasse la fiamma, accesero in varie parti al tempo stesso quelle materie attissime a concepirla, e suscitarono un incendio che durò poi dieci giorni portando seco la total distruzione di tutti quelli arnesi, che furono stimati valere più che centomila fiorini d'oro. Ma le fiamme dei magazzini divamparono troppo rapidamente contro il desiderio d'Antonello, che già col fuoco in mano andava verso l'arsenale per bruciar le navi, quando la insolita luce e il vorticoso stridore del fetido catrame destarono i cittadini, che ad alte voci richiamandosi concorrevano da ogni parte in quel luogo. I nostri giovani allora persuasi non aver più tempo d'incendiar l'arsenale, nè volendo ad ogni modo tradire se medesimi per cosa divenuta impossibile, tornarono alla barchetta, e tacitamente contemplando l' arsione dei magazzini che essi avevano prodotta, così mezzo tra lieti e dolenti si rinbarcarono a fine di trapassar nella stessa notte i Dardanelli e ridursi poi salvi all'armata. Ma per loro sventura in quella sollecitudine tenendo abbasso il fanale si accesero gli stessi loro fuochi artificiati che stavano nella stiva, così che la barchetta già cominciava a bruciare, quando Antonello, non avendo altro partito, dette un gran colpo abbasso, aprì una tavola, spense il fuoco, sommerse il battello, ed insieme ai compagni, espertissimi nuotatori, ritornò alla infausta spiaggia; donde poi entrato in una selva vicina, dopo avere inutilmente ricerco ogni modo di scampo, fu costretto quivi a rimanersi il meglio che potè con gli altri giovani nascosto.

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Al tempo stesso il governator di Gallipoli faceva diligentemente ricercare l'autore dell' incendio; e gli esploratori suoi come ebbero nel dì seguente vedute alla riva le frutta sparse, la navicella sommersa, e gli arnesi che vi restavano, si apposero al vero sul conto del mercadante venuto il giorno indietro alla piazza. Quindi seguendo le orme impresse sulla rena entrarono nel bosco e facilmente ritrovarono la spelonca ove Antonello ed i suoi stavano celati. L'uno dei sette, chiamato Rado lesto di mano e d'anima ardita, come sono i dalmati, stimandosi spacciato elesse innanzi di morir combattendo, che lasciarsi menare dai nimici al patibolo: uscì dunque fuori come un lione ruggente dalla spelonca, assalì con la spada gli sgherri, e, dopo averne trucidati due, esso stesso in tutto il corpo da molte punte trafitto cadde esamine. Antonello e gli altri cinque, più ancora intrepidi nel sostenere l'avversa fortuna, furono condotti tra molti strazi e catene sino alla presenza dell'imperadore; ove, ricercando Maometto ad Antonello quale ingiuria avesse ricevuto o quale beneficio sperasse dalle opere sue, dicono, che questo ferocemente così gli rispondesse : « Dimmi tu piuttosto, o tiranno crudele, quale ingiuria non hai tu fatta alle genti d'ogni paese? Tu senza causa hai tolto il dominio ai principi vicini, tu senza ragione hai ridotto a servitù i popoli che nullamente ti appartenevano, tu cerchi spegnere in un mare di sangue il nome cristiano: perfido, non serbasti mai fede nei trattati, non ti saziasti mai della strage degli amici e dei nimici. Deve ogni uomo da bene per debito, non per mercede, impedire il male che tu fai, e perseguitarti come inimico pubblico e peste dell'uman genere. Io sono in guerra giusta contro di te, io l'autore dell' incendio; e confesso dolermi soltanto non averlo compiuto, e non potere dare il ferro sul tuo capo al modo ch'ho messo il fuoco sopra le tue sostanze ». Maometto ammirò la costanza e la magnanimità del siciliano; tuttavia non avendo pensieri generosi come Porsenna, ma crudeli conforme a sua natura, impose che insieme ai compagni fosse morto; e in siffatta maniera confermò la sua propria condanna e la verità delle cose dette da Antonello. Così con sublime esempio di magnanima fortezza e dimostrazione pubblica di quella fede che professava, invocando il nome santissimo di Gesù, fonte di eterna salute e di cele

ste speranza, offerì la testa innocente alla spada del carnefice questo giovane di gran cuore, che al disopra dell'umile sua condizione levandosi nobilitò per un atto eroico la causa, nella quale principi e papi contro la barbarie combattevano. Dappoi la virtù dell'eroe fu premiata nelle persone ch'egli teneramente amava: i veneziani ad una vergine sua sorella assegnarono dall'erario pubblico la dote; ed il fratello ancor fanciullo scrissero ai ruoli della loro marina, affinchè, quantunque inetto per l'età, godesse a vita quello stesso stipendio che Antonello prima della morte percepiva.

Questo fatto, a chi ben lo considera, apre la intelligenza di molte verità storiche e morali rispetto alle guerre dei turchi e dei cristiani, manifesta il carattere dei due popoli, e la pubblica opinione dalle più alte intelligenze diramata insino all'infima plebe. Uno schiavo cristiano, venuto al paragone del gran principe dei turchi, apparve un eroe; e questi restò, com'era, sotto le forme d'un barbaro carnefice.

Le notizie di tali successi mantenevano viva negli alleati la fiducia di miglior procedimento; ed il Papa alle forze sue procacciava associare quelle degli altri principi a fine di giunger presto e sicuramente al termine di quella lotta. Per ciò volendo indurre alla crociata il re di Francia, in vece del cardinal Bessarione, che sebbene per tanti meriti commendevole non era stato gradito a Parigi, e se ne tornava dalla sua legazione addolorato di quel cordoglio onde poi morissi passando da Ravenna 94, disegnò spedire per suo legato nelle Gallie l'istesso cardinale Oliviero Caraffa, acciocchè presso quella bellicosa nazione maggiore favore trovasse la gloria delle armi che trovato non aveva la sublimità dell' eloquenza. Quindi al posto del cardinale Caraffa nella legazione e prefettura dell' armata navale pontificia subentrò monsignor Lorenzo Zane 95, nobile venezia

94. RAYNALDUS. Ann. 1473. n. 1.

PLATINA. Vita Sixti IV. S. R. I. T. III. Parte II. p. 1060. A.

95. Molti istorici e tra essi il RAINALDO. Ann. 1473. n. 1. errano nel nome di Lorenzo cui per equivoco chiamano Zeno, mentre era certamente Zane, di famiglia altrettanto nobile e veneziana quanto la prima. Lorenzo Zane prefetto dell'armata pontificia fu Patriarca titolare d'Antiochia, e vescovo di Spalatro, Trevigi, e Brescia, governator della Marca, Preside di Perugia, e mori nel 1485.; di lui scrisse la vita FRA GIOVANNI DEGLI AGOSTINI. Notizie degli scrittori veneziani. in-4. Venetia 1752. T. I. p. 177-204.

no, uomo di molte lettere, e sperimentato nei governi e negli affari di guerra e di pace, che alla testa delle galere pontificie, ridotte in quest'anno al numero di dieci, partì dall'Italia e navigò verso Rodi.

Il maggior vantaggio che i turchi avessero sopra i cristiani era, che eglino procedevano senza dubbiezza nelle amicizie e nelle nimicizie, mentre che gli altri non trovavano modo di andar d'accordo insieme; e per sino i collegati stavano tra loro in un continuo ripitìo di mala soddisfazione. Era dispiaciuto al Papa, che nella campagna precedente i veneziani avessero bruciata la città delle Smirne anzichè ritenerla, come già si era fatto nel trecenquarantaquattro, affinchè servisse di base a progredire in Asia 96: a questi dissapori si aggiunse poco dopo, che avendo circuito sotto diversi pretesti le varie corti d'Italia il cardinal di san Sisto, fra Pietro Riario parente dal Papa, tentando l'animo dei principi per veder come stavano nei pensieri loro intorno alle cose della penisola, appena tornato da Venezia a Roma si morì, non senza suspicione di veleno a carico della repubblica 97: ma una ragione più delle altre grandissima, e di giusta querela veniva dalle ingiurie continue, che agli anconitani ed alle altre città della Marca facevano i veneziani, i quali quanto più presumevano sul dominio del mare Adriatico 98, tanto maggiormente violavano i dritti altrui. E le cose erano a tal segno ridotte, dopo il pontificato di Paolo secondo, che non potevano più gli anconitani e gli altri popoli del Piceno trasportare le merci loro con gli stessi loro bastimenti da un porto all'altro dello stato medesimo, senza speciali permissioni e pagamenti ai veneziani; i quali mantenevano in quelle marine una squadra di galere a storcere suggezione e pagamento: il governatore della predetta squadra era chiamato il comandante delle marine della Marca, titolo ingiurioso al dominio

ZABARELLA JACOPO. Il magnifico. in-4. Padova 1661. p. 35.

UGHELLI. Italia Sacra, inter Tarvisinos. T. V. p. 566. et inter Brixianos. T. IV. pag. 560.

96. RAYNALDUS. Ann. 1472. n. 43. in una noterella marginale, dice così: « Veneli civitatem ( Smyrnam) non munivere, ne juris pontificii foret ». 97. NICOLÒ MACCHIAVELLI. Storia Fiorentina. Anno 1473-74. RAYNALDUS. Ann. 1474. n. 22. 24.

98. Vedi sopra Lib. II. cap. xxvI.

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