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debbo per la qualità della mia storia ricordare Civitavecchia, che avendo fatto il debito suo nel completo olocausto di se stessa alla salute della capitale e dello Stato ebbe poi da Dio la mercè di risorgere, per essere special fondamento alla marina pontificia, quando poi la provvidenza volle confondere i disegni dei nemici. Tempo verrà che vedremo uscir dal suo porto con lo stendardo delle chiavi quel naviglio che dovrà recidere in Africa, in Asia e nelle ancor rosseggianti acque dell' Ionio le punte orgogliose della odrisia luna 52.

X. Ma intanto proseguo il filo del discorso ordinando insieme le notizie che risguardano questa città, il di cui popolo con esempio quasi unico nelle storie quantunque cacciato dalla patria, non volle mai nè incomporarsi alla cittadinanza romana, nè mescolarsi alle genti di alcun altro paese propinquo; che anzi maggiormente uniti tra loro dai legami della sventura e dell'esilio, guidati sempre dal loro vescovo quanti erano restati superstiti alla strage ed all' incendio andarono ramingando sopra quei monti circostanti che formano la diramazione dell'appenino marittimo, e vissero molti anni per luoghi deserti e tra le selve, finchè Leone IV edificò ai profughi infelici una nuova patria. L'avvenimento singolare a me piace descrivere con quei semplici e nativi colori onde fu dipinto a futura memoria da Anastasio Bibliotecario che in quel tempo viveva, le cui parole ridotte a nostro volgare dicono così: 53 Desiderava grandemente il pontefice Leone quarto che il popolo di Civitavecchia non restasse dai suoi nimici al tutto sterminato e consunto imperocchè avendo i saracini espugnata la città e passato a fil di spada gran parte dei cittadini, gli altri che avevano potuto fuggir via erravano raminghi in mezzo alle selve

52. La prima venuta dei saraceni a Roma viene segnata da ANASTASIO BIBLIOTECARIO, da MARTIN POLONO, da SANTO ANTONINO e dal BIONDO per il tempo di Gregorio IV. circa l'anno 829. Quindi ciò che dicono dell'anno 846 a tempo di Sergio II alcuni altri storici, si deve intendere d' un ritorno: imperciocchè più volte, come si vedrà a suo luogo, i saraceni ricalcarono la medesima strada. 58. ANASTASIUS BIBLIOTHECARIUS. In vita Leonis IV. MURAT. S. R. I. T. III. Parte I. p. 244.

VIGNOLIUS. Liber pontificalis, seu de gestis Rom. Pontif. in-4. Romae 1755. T. III. p. 132.

BARONIUS. Ann. eccl. anno 854. n. 1. ad 6.

e su per le montagne inospitali a guisa di fiere. E nè anche le spilonche nè le caverne non bastavano a procacciar loro un quieto ricovero: anzi per li continuati scorrazzamenti dei mori in tutti i luoghi vicini, nè sicuranza alcuna potevano avere nel giorno, nè alle stanche membra concedere il riposo nella notte, nè altra serenità godere, come l'umano consorzio ad ogni popolo consente. Or dunque mentre il pio pastore tra molte lacrime si condoleva della intolerabile gravezza ed angustia tragrande dei civitavecchiesi, ch'erano pur pecorelle della sua greggia, con infinite orazioni continuamente pregava Iddio affinchè per sua grazia si degnasse mostrargli il modo di fondare un' altra città nella quale il popolo dei civitavecchiesi potessse ripararsi ed avere permanente dimora. Andò pertanto con la persona sua in mezzo ai profughi, e al tempo opportuno percorse le vicine montagne riguardando diligentemente tutti i luoghi prossimani: ma non provecciava. Perchè ovunque la stanza fosse buona e sicura quivi mancava l'acqua; e per converso ove questa abbondantemente scaturisse non si trovava il luogo difendevole. Così dunque tra molti aggiramenti trapassando pervenne alla fine in parte tanto acconcia che il suo cuore si dilatò nel gaudio di aver discoperto il miglior partito di piazza forte, ed insieme tanta copia d'acqua dolcissima da bastare non solo all'uso degli uomini, ma anche a rimenare le macine delle mulina. Questo fu un prodigio della clemenza superna, imperocchè mentre una notte il preclaro pontefice nel suo letto dormendo giaceva si presentarono al suo pensiero le imagini del predetto luogo distante dal porto di Trajano quelle dodici miglia, e colà gli sembrava nel sogno d'esser condotto insieme a Pietro mastro di campo delle sue milizie col quale in diversi ragionamenti trapassando disegnava la pianta delle muraglie, delle piazze, delle chiese, e le torri in giro, e le due porte che si volevano edificare. La mattina seguente, come fu desto e memore del sogno, provò in se medesimo tenzone grandissima: ma poi risolutamente fatto chiamare messer Pietro predetto lo fece partecipe dei suoi pensieri e dopo esser convenuti insieme, e chiarita ogni cosa, gli consegnò molta pecunia affinchè conducesse il popolo di Civitavecchia al luogo designato e con quello si adoperasse all' edificio della nuova città. Per

la grazia della provvidenza celeste ai nostri giorni abbiamo veduto noi il compimento della bella fondazione al modo istesso che il pontefice aveva già nell' anima sua divisato. La nuova città fu chiamata Leopoli, traendo il nome suo da quello del fondatore, che tornò amorosamente quando fu compiuta per rivederla menando seco molti suoi famigliari, con i quali si racconsolava mostrando le belle porte, le mura, le chiese, ed ogni altra fabbrica secondo il suo desiderio condotta a termine. Per la qual cosa con molte orazioni non cessava ringraziare il signore per avergli dimostro un tal luogo ove il popolo suo si riparasse, e non solo conseguisse sicurezza di abitazione, ma la copia d'ogni bene e specialmente tanta acqua, pietra e calcina da sopperire ad ogni bisogno e ingrandimento di quel luogo anche per il tempo a venire. Lietissimo per tanto di aver conseguito il proposito suo, deliberò un giorno di far processione col clero e col popolo intorno alle mura di Leopoli; e così fece, cantando inni divoti e litanie. Poi celebrò egli stesso il pontefice messa solenne, asperse di sua mano l'acqua lustrale sopra le muraglie, e con triplice orazione dedicò la città all' augustissima trinità di Dio. Dopo le quali cose distribuiti molti doni ai magistrati e gentiluomini, e molte elemosine ai poverelli, raccomandando a Dio la città e gli abitatori con molti auguri che vivessero felici e non mai più fossero molestati dagli avversarî, se ne tornò a Roma pieno di gaudio spirituale. La città di Leopoli fu compiuta il quindicesimo giorno del mese, anno del pontificato ottavo, indizione seconda, cioè ai quindici di agosto dell' ottocento cinquantaquattro.

Alle chiese poi nuovamente fabbricate in Leopoli mandò in dono il Papa molte belle e ricche masserizie. Cominciando dalla chiesa di san Pietro diremo, che le donò sette lampanari d'argento fuso tra grandi e piccoli del peso tutti insieme di libre sedici ed oncia una : donò un cestellino di metallo dorato: tre boccali dorati cinque fermagli di varie dimensioni: una croce d'argento dorata con in mezzo una bella gemma: similmente una croce d'oro e sopra a quella incastonato un diamante solitario: più un'altra croce d'argento con quaranta piccole gemme un turibolo d'argento un' armilla: dodici corone d'oro un paniero e due vaselli, le coppe dei quali for

mate con due gusci d'uova di struzzo e legate in argento di più donò alla chiesa medesima due paramenti di seta, l'uno dei quali guarnito nel mezzo con una pittura ricamata ad oro ed a porpora e l'altro con una croce ricamata inoltre quattro pallottoline con arnesi di calzatura, dieciotto veli di drappo di oro, ed un crocifisso d'argento purissimo in sette libre di peso. Alla chiesa di san Leone nella stessa città donò una patena dorata col calice d'argento, due paramenti l'uno dei quali assai bello di drappo d'oro ricamato a seta porporina per tutta la cimasa, con in mezzo una ruota di ricamo ad oro ed altri ornamenti rabescati. Similmente donò sette codici di libri cattolici: il pentateuco di Mosè, i libri di Salomone, i salmi di David, l'antifonario, il messale, la storia dei santi e le omelie dei padri, e sopratutto i quattro evangeli legati nobilmente in argento. Per ultimo donò un altare di argento massiccio pesante libre ottantaquattro e cinque oncie, lavorato a rilievo con la figura di san Pietro ed i fatti dei suoi miracoli rilevati sopra lamine di metallo forbito e brunito, che d'immensa luce sfolgoreggiavano come gli astri del cielo. » Da questo saggio di preziosi doni si pare quanto nobilmente fosse rilevata quella città, quanto al Pontefice fosse cara, come per suoi meriti beneficata ; e quanto anche dovesse piacere ai saracini il peregrinare in Italia e visitarne i santuarî.

830.

Sarebbe stato per la marina pontificia un danno assai grave se gli abitatori della nuova città avessero perduto l'affetto all'antica patria ed al magnifico suo porto: ma l'amore grandissimo che sempre per l'una e l'altro nutrirono, l'irresistibile attrattiva che il mare esercita sopra i marini, le abitudini le tradizioni furono causa che lo stato papale non rimanesse privo di quel porto donde poi trasse infiniti vantaggi e che sarebbe andato altrimenti in ruina completa. Gli abitatori della nuova città si considerarono sempre come pellegrini nella terra montana; il nuovo albergo, quantunque alla corte fosse talvolta chiamato Leopoli, nondimeno nella bocca del volgo ebbe sempre di fatto il nome istesso della vecchia patria, fu detto la nuova Centocelle: gli abitanti poi negli atti pubblici, nei discorsi familiari,

nei contratti con i vicini si chiamavano ed erano chiamati centocellesi, e per fino i vescovi con questo titolo e non con quello di leopolitani sottoscrivevano ai concilì di Roma per quel tempo celebrati. Il qual nome tanto saldamente si era appreso e incorporato, che nè l'imperador Trajano nè papa Leone riuscirono a tramutarlo allorchè l'uno e l'altro volevano sostituirgli il nome proprio. Ma quello che non produsse la volontà degli uomini avvenne per necessità e straordinaria potenza dei casi : imperocchè le singolari vicende avanti raccontate fecero che nel nono secolo esistessero l'una di fronte all' altra due città dello stesso nome, cioè due Centocelle: la prima sul mare, desolata, ed in balìa degli africani: la seconda sul monte, rinascente, ed abitata dalle reliquie del popolo superstite alle passate ruine : durarono in tal modo ambedue circa quarant' anni, sinchè essendo stati cacciati (come vedremo i saracini da queste vicinanze, trattarono i centocellesi del monte se fosse bene ritornare alla città del mare. Dice la fama che raunatisi i magistrati e gli anziani in general parlamento alla campagna sotto l'ombra ospitale di alcuna ombrosa quercia, un vecchio cittadino chiamato Leandro facesse tale arringamento agli uditori che tutti commossi alle memorie della madre patria, del mare e del porto acclamassero tra le due Centocelle la prevalenza dell'antica ed il ritorno immediato alla vecchia città. Quel giorno dell'anno 889 fu il tramutamento le due città che avevano un solo nome divenuto equivoco lo perdettero ambedue : l'una del monte, che restò quasi deserta, mantiene anche oggidì il corrotto nome di Cencelle: l'altra sul mare fu chiamata la Città vecchia, il consiglio dei padri fu dichiarato ottimo, e la quercia augurale divenne lo stemma del comune 55.

54. PETRUS Centumcellensis Episcopus in Concilio Romano sub Eugenio II. HARDUINUS Collect. concil. T. V. p. 61.

853.

DOMINICUS Centumcellensis Episcopus. In sinodo romana sub Leone IV. an.
HARDUINUS. T. V .p .78.

DOMINICUS Centumcufensis (sic amanuensium inscitia) idest Centumcellensis Episcopus. In conc. rom. anni 861. – BACCHINIUS app. ad Agnellum ext. ap. UGHELLUM. Ital. Sacr. inter Ravenn. T. II. fol. 350.

55. Leopolis non diu permansit: deserta ob varia incomoda, ita ut incolae regredientes Centumcellas dicerent ad invicem Civitatem veterem repetamus. Hinc factum est nomen Civitavecchia. ANONIMUS RAVENNAS.

BORGIA. Memorie di Benevento in-4. Roma 1769. T. III. p. 197. nella nota.

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